Giovanni Cerri è nato a Milano nel 1969. Figlio d’arte del pittore Giancarlo Cerri, ha iniziato la sua attività espositiva nel 1987 e da allora il suo percorso artistico si è sviluppato attraverso mostre personali in Italia e all’estero. I suoi primi lavori ad olio sono incentrati sul paesaggio e soprattutto sulla periferia urbana di Milano, luogo che tuttora rimane fonte di ispirazione e approfondimento. Oltre ai consigli paterni, in quegli anni gli è di prezioso aiuto l’amicizia con lo scultore Giuseppe Scalvini, storico maestro e punto di riferimento per il giovanissimo pittore. Dall’osservazione diretta dei quartieri operai e degli “scheletri” delle cattedrali industriali avvenuta alla metà degli anni ’80, periodo in cui le tonalità rimangono tipicamente lombarde e sironiane, il suo percorso poco tempo dopo si sposta su orientamenti espressionisti, dove il disegno e i colori si fanno più aggressivi, stridenti nei forti contrasti e vicini alle esperienze degli artisti figurativi nord-europei contemporanei. Nella metà degli anni ’90 avviene anche la sperimentazione – sempre all’interno dell’immagine dipinta – della commistione di elementi fotografici di pubblicità, frammenti di oggetti trovati e recuperati, terra, carte, e stoffe combuste. La sua pittura, in quegli anni di transizione, è caratterizzata da orizzonti di periferie, volti o figure che si stagliano su chiari e vivaci fondi uniformi. Nel 1995, con altri artisti fonda il gruppo “Polittico” e successivamente, nel 1996, inizia la sua collaborazione con Stefano Cortina. Nel 1998 conosce Luigi Olivetti e, con lui, l’attività dell’Associazione e poi della Libreria Archivi del ‘900, con cui periodicamente collabora organizzando e coordinando iniziative artistiche. Attraverso Luigi Olivetti , sempre in quell’anno, stringe amicizia con lo scrittore Raul Montanari, del quale pubblicherà negli anni a seguire diversi brani nei cataloghi, come ideale commento letterario alle opere. Tra la fine degli anni ’90 e il 2001 l’accento espressionista va personalizzandosi con la puntualizzazione di un paesaggio e di un contesto raffigurato sempre più interiore e la sua attenzione si concentra sulla luce; una luce bianca che diventa continua scoperta, rinnovandosi nei diversi tagli di inquadrature e prospettive, a lui congeniale anche in questi anni. Nel 2000 e nel 2005 è stato membro della commissione artistica annuale alla Permanente. Nel 2002, in occasione del centenario del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, realizza una grande opera (cm. 200x450) dal titolo Nuova Umanità, esposta ora nella sede centrale della UIL di Milano. Dal 2001 inizia a lavorare sulla carta di quotidiano, supporto che continua ad essere presente anche oggi. Nelle attuali immagini - dove compaiono figure in lotta o paesaggi che sembrano emergere da ambienti colpiti da una guerra, territori abbandonati o in rovina, luoghi deserti o disabitati dopo un esodo epocale – vediamo infatti affiorare qua è là, casualmente, scritte di cronaca nera, politica, sport, economia e quant’altro i quotidiani riportano. E’ la testimonianza scritta del nostro tempo, la parola della cronaca che diventa commento e accompagnamento, che scandisce - come un orologio verbale – i nostri giorni riflessi nelle immagini.
Sue opere figurano nelle seguenti collezioni: Fondazione Torre Colombera a Gorla Maggiore (VA), Museo di Gazoldo degli Ippoliti (MN), Galleria Civica di Seregno (MI), Fondazione DARS di Milano, Museo Pagani di Castellanza (VA), Galleria d’Arte Contemporanea di S. Donato Milanese, World Museum di Cesano Maderno (MI), Museo d’Arte Contemporanea di La Spezia, M.I.M Museum in Motion di S. Pietro in Cerro (PC), Museo “Vito Mele” a S. Maria di Leuca (LE), Galleria d’Arte Contemporanea di S. Angelo Lodigiano e Museo della Permanente a Milano.
Del suo lavoro hanno scritto: Emanuela Allegri, Giorgio Balistrocchi, Luisa Bergomi, Massimo Bignardi, Felice Bonalumi, Cinzia Bollino Bossi, Chiara Canali, Ettore Ceriani, Gianni Cerioli, Gemma Clerici, Maria Grazia Colombo, Tiziana Cordani, Stefano Cortina, Antonio D’Amico, Hans De Clercq, Mimmo Di Marzio, Elena Di Raddo, Giulio Dotto, Pedro Fiori, Vania Frare, Martina Ganino, Paul Kroker, Lino Lazzari, Paolo Lezziero, Ezio Maglia, Teodosio Martucci, Enotrio Mastrolonardo, Daniela Mattarozzi, Fiorella Mattio, Mario Micozzi, Franco Migliaccio, Raul Montanari, Elisabetta Muritti, Luca Pietro Nicoletti, Franco Patruno, Carlo Perini, Dimitri Plescan, Gabriele Poli, Antonio Pozzoli, Gianni Pre, Gabi Scardi, Giorgio Seveso, Giorgio Trevisan.
REPORTAGE DAL DILUVIO Luca Pietro Nicoletti
C’è un profondo senso di abbandono nelle vedute urbane di Giovanni Cerri, dove gli uomini, da un tempo imprecisato, non vivono più. Sono rimasti gli scheletri degli edifici, i giochi dei bambini. Di tanto in tanto qualche cane randagio brancola disperato, erratico, senza una meta o un luogo preciso. Una catastrofe naturale è avvenuta e ha spazzato via una civiltà: chi è rimasto è un sopravvissuto, un relitto. In qualche modo, vedendo questi dipinti si è di fronte ad un vero e proprio reportage del diluvio. Le ‘terre emerse’ di Giovanni Cerri contengono il senso della distruzione, del diluvio, ma al tempo stesso sono abbagliate anche da uno spirito di resurrezione. Dopo il crepuscolo degli dei, quasi di wagneriana memoria, e dopo il passaggio dei testoriani ‘angeli dello sterminio’, c’è infatti un senso di emersione, di rinascita: dalle rovine viene fuori un mondo nuovo nel segno di una esistenza primordiale, o primigenia. L’assenza della presenza umana non sta a indicare una terra inospitale, ma luoghi non ancora pronti ad essere abitati, luoghi ancora in una fase di metamorfosi, di assestamento tettonico: saranno, un giorno, dei luoghi abitati. Per ora, però, la pittura restituisce solo un reportage che segue al diluvio, l’alba dopo l’inondazione: quando le acque di ritirano, la terra riaffiora con il suo corpo sanguinante, lacerato. È come se la pelle della terra fosse diventata carne ferita, macerata da lame di luce. Non è una rinascita senza dolore, anzi tutt’altro. In lontananza, sul landscape, si profilano le vestigia abbaglianti della città. Sono gli scorci della periferia di Milano, amatissima da Cerri, che la conosce bene essendo cresciuto nel quartiere Stadera e avendo nutrito fin da ragazzo un interesse particolare per i mondi marginali. Le città si profilano come degli abbagli, affiorano da un caos pittorico fatto di colori pesti, sporchi. In passato, nelle tele presentate al Museo Pagani nel 2005 e, prima ancora, nella mostra Memoriale alla galleria “Magenta 52” nel maggio del 2003, dominava un uso forte del rosso vermiglione. Progressivamente, poi, la tavolozza si è incupita sulla gamma dei bruni, dei grigi, fino ad una riduzione cromatica ai minimi termini: il bianco e il nero. Solo in questi ultimi lavori fanno la loro comparsa qua e là gli ocra, gli azzurri, persino degli sprazzi di rosa. Lo sguardo si è allargato alla vista panoramica e la città, in cui a tratti si profilano edifici riconoscibili, è una sorta di isola, una zolla tettonica galleggiante che si staglia su un cielo algido e lattiginoso: un cielo che chi vive a Milano conosce molto bene. Dopo grande desolazione e feroci battaglie, dunque, un momento di quiete, per quanto tragica e sublime, viene a calmare gli animi, anche se pare più che altro una tregua. Tuttavia, i giochi dei bambini non si sono ripopolati: come a Cernobyl, più volte evocata dall’artista come possibile scenario su cui profilare i suoi dipinti, la vita di un tempo se ne è andata. Non per niente Cerri stesso titolava un suo intervento Pensando ai primitivi del futuro: l’alba dell’uomo di 2001: Odissea nello Spazio, film molto amato dall’artista, che ne potrebbe essere lo scenario.
È necessario però riflettere anche sul supporto di questi lavori: l’artista progetta i suoi lavori partendo da un collage di carte di quotidiano assemblate in ordine sparso attraverso applicazioni e rimozioni di materiale. L’effetto che ne deriva è quello di una composizione volutamente caotica, in cui i caratteri tipografici perdono qualsiasi valore contenutistico e assumono la consistenza di segni grafici accostati secondo un criterio di pieni e di vuoti, di chiari e di scuri grazie all’alternanza fra testo e fotografie tipica del quotidiano. Su questa base, poi,Cerri interviene con la pittura ad olio, ed è inevitabile, a questo punto, che la composizione si debba misurare in senso dialettico con lo sfondo dovendo scegliere fra coprire il testo oppure farne affiorare degli elementi. Proprio a questo punto, dunque, è possibile che nella pittura si insinui una intenzione verbovisiva in quei casi in cui l’artista decida di conferire una particolare evidenza a stralci di frase o ad altri elementi visivi. Non bisogna attribuire un significato simbolico all’uso di questo materiale, né indugiare eccessivamente nel decifrare i frammenti di parole che qua e là affiorano dietro la pittura, perché non vi è nessuna scelta progettualmente concettuale a monte. Tuttavia non è infrequente che dalla disposizione casuale delle pagine del quotidiano vengano fuori scritte o immagini, o più semplicemente caratteri, che tornino funzionali alla composizione. A volte stralci di notizie di sciagure o di altra cronaca rischiano di diventare dei presagi che aleggiano nell’atmosfera, specie nei quadri di piccole dimensioni, in cui il rapporto fra carattere e immagine ha un coefficiente più alto. Anche nelle grandi dimensioni escono fuori frasi come urli che rimbombano nel vuoto. Nella maggior parte dei casi, però, questo background fatto da un intreccio di segni e caratteri su cui si dispiega il reportage del diluvio è semplicemente una interferenza visiva, un modo metaforico di restituire il “chiasso”, come in un televisore disturbato da problemi di trasmissione. Le terre emergono dunque a memoria del fatto che un passato c’è stato, e nel frangente, nel ritmo convulso delle cose che si sovrappongono, delle notizie che arrivano a spezzoni, rumore bianco di sottofondo.
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