LORENZO MANENTI. LE ROVINE DI BAGHDAD
Luca Nicoletti
All’avvio della ricerca artistica di Lorenzo Manenti c’è una smodata passione, coltivata negli anni d’accademia a Brera, per Mario Sironi, dalla cui opera ha attinto a piene mani i modi di una pittura monumentale fatta di forme piene e ruvide. Ma a questo nume tutelare, Lorenzo ha affiancato quasi da subito una passione archeologica, l’ossessione per il passato delle rovine, del frammento di pietra antica scalfita dal tempo. C’è già negli anni dell’accademia, alla scuola di Saverio Terruso, un olio di grandi dimensioni che ritrae un busto romano antico: il primo di una lunga serie. Non è, la sua, una scelta di gusto antiquario, né un facile ripiegamento sul d’aprés, bensì la volontà di instaurare un contatto umano con una civiltà del passato: l’obiettivo finale è l’uomo antico. Il primo esempio di questo approccio è costituito da una serie di busti etruschi e romani, dipinti con una maniera larga, massiccia, come dei veri e propri ritratti in posa. Si tratta di una operazione solo apparentemente immediata, in quanto non si tratta di una semplice copia, ma di un’applicazione degli schemi della pittura di ritratto alla scultura antica. Per questa ragione ci si trova di fronte a inquadrature ravvicinatissime, quasi delle fototessere, su fondo uniforme nero o azzurro, come a costruire una serie di “carte d’identità” di uomini del passato.
A questi ha fatto seguito una serie di rielaborazioni sulle forme del romanico: brani della scultura antelamica e wiligelmica sono stati ritessuti in un linguaggio sironiano, fatto di grigi e di volumi sintetici. Nel passaggio da una serie all’altra, la pittura ha assunto una consistenza materica ai limiti del bassorilievo: all’acrilico Manenti ha aggiunto il cemento, in modo da ottenere una base di materiale spesso, da modellare prima di intervenire con il colore. Ma l’aspetto più interessante, in quella fase, è costituita dalla risemantizzazione del modello di partenza: se i busti etruschi e romani erano dei veri e propri ritratti, la serie parmense dei Mesi di Benedetto Antelami subisce una radicale trasformazione, tanto da diventare uomini con mani e piedi enormi, fisionomie squadrate, con gli zigomi pronunciati e i tratti duri, come nella tradizione di Novecento.
È da queste premesse che Manenti è approdato all’arte degli antichi abitanti della Mesopotamia. C’è una rabbia e una tensione civile fortissima nell’operazione concettuale che sta alla base di questa nuova serie di lavori, dettata dalla storia recente e, soprattutto, dalla notizia degli scempi sofferti dai beni archeologici durante la guerra in Iraq. Fra le vittime del conflitto, infatti, fra l’8 e il 12 aprile del 2003, durante la presa di Baghdad, l’Iraq Museum della capitale è vittima di un pesante saccheggio e di ingenti distruzioni vandaliche. È una vicenda dalle dinamiche complesse, che vede in campo da una parte il disinteresse da parte delle forze americane e un intervento tardivo dell’UNESCO, un rimbalzo delle responsabilità sull’accaduto e l’assenza di un tempestivo intervento di tutela sia per il museo sia per gli scavi archeologici. Non mancano i lati oscuri, le eco giornalistiche che ingigantiscono gonfiano subito in modo spropositato le cifre delle perdite, paragonando la razzia all’incendio della mitica biblioteca di Alessandria. Resta il fatto che, una volta sgonfiata la notizia, oltre 8.000 reperti risultano ancora mancanti, e 20.000 danneggiati durante il saccheggio. Lo sfascio dei siti archeologici, poi, è un’emergenza che tutt’oggi fatica a rientrare. Una storia che si ripete, insomma, che lo studioso di storia del vicino oriente antico Frederick Mario Fales ha minuziosamente ricostruito nel suo Saccheggio in Mesopotamia (Udine, 2004) cui si rimanda per un accurato inquadramento non solo di quei tragici eventi, ma anche dell’avvincente storia di un museo difficile come quello di Baghdad, in cui archeologia, orientalismo e ideologia si mischiano in modo inscindibile, costituendo un non indifferente problema di identità per la cultura (non solo archeologica) dell’Iraq. Viene da pensare ai problemi della difesa del patrimonio storico-artistico cui anche l’Italia aveva dovuto fare fronte in tempo di guerra, come recentemente è tornata a ricordare Alessandra Lavagnino nel bel libro Un inverno. 1943-1944 (Palermo, 2006). Ma viene anche da pensare alle parole addolorate del diario di Benedetto Croce quando, a data 14 ottobre 1943, annotava dell’incendio provocato dai tedeschi nell’archivio di stato di Napoli: “Sono con l’animo di chi ha visto morire la persona più cara, ma con la mente di chi misura l’immensità della perdita per la nostra tradizione e per la scienza storica. E non c’è rimedio, e non c’è vendetta che possa soddisfare; e intanto siamo appena ai principi della distruzione sistematica che questa gente dal cuore barbarico e dal cervello pedantesco si è proposta di eseguire dell’Italia, non solo della sua potenza industriale ed economica ma nel suo valore ideale di maestra di storia e di arte.”
In questo senso va letto il primo dipinto che apre questa serie, la Coppia di sposi da Nippur, del 2003, di cui l’artista stesso diceva: “Scelsi di lavorare sull'immagine di quel reperto perchè avevo l'impressione che i volti di quella coppia […] ed il gesto delle mani fossero espressione (probabilmente involontaria) di una forte angoscia, qualcosa di simile, credo, a ciò che stava veramente vivendo la popolazione iraqena.”
Sono la rabbia e lo sdegno, dunque, il motore che ha spinto Manenti a comporre questa serie di enormi pannelli dominati da volti, maschere, figure dell’arte mesopotamica. Si tratta di grandi lavori su carta tratteggiati con abile disegno a gessetto con successivi interventi a vernice trasparente e sabbia, da cui viene l’effetto di un dilavamento delle forme che ha conferito a questi fogli la bellezza drammatica del canto del cigno: queste vestigia nella pietra si sfarinano davanti allo sguardo, colano materia come se si stessero sciogliendo. È il tempo che si stratifica sulle cose, che scava e interviene, distrugge e rimodella : Le temps, ce grand sculpteur avrebbe detto Margherite Yourcenar.
Manenti ha scelto lo sguardo dell’uomo antico come monito, come memento: è un occhio che viene da altri tempi ad interrogare il presente, a guardarlo con aria solenne, apparentemente imperturbabile ma in realtà con giudizio severo: gli antichi abitanti di questi luoghi non approverebbero, anzi non approvano, le vicende di cui sono stati protagonisti.